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Dialettica dicibile indicibile, essente esistente

Dialettica dicibile indicibile, essente esistente

Dialettica dicibile indicibileDialettica dicibile indicibile

L’Intervento scritto di Carlo Piccioli (Montefranco) al convegno di Assisi Innovazione e Ricerca Scientifica sui sentieri della Materia e dello Spirito

Della dialettica dicibile-indicibile, essente-esistente

Nel flusso delle argomentazioni che in un convegno vengono proposte, chiedo una pausa, così che possa sorgere la domanda.

 La domanda è: Se unico fosse il relatore, giudicheremmo meglio le sue argomentazioni? E se l’uditorio fosse all’oscuro dell’argomento, ovvero tabula rasa in relazione ad esso, come giudicherebbe l’argomentato?

Credo che la risposta possa considerarsi scontata e negativa, nell’un caso come nell’altro.  Di più, nel caso della tabula rasa è da ritenere che neppure in negativo ci si possa esprimere, per la semplice ragione che neppure in questa forma può configurarsi un giudizio: giudicare è raffrontare, porre relazioni, istituire relazioni.

Conoscere, comprendere è infatti un cum-capere, un prendere insieme, un rapportare, legare cosa a cosa: l’elemento A al B. In sostanza, conosciamo A per mezzo di B, in virtù di B. Ma come conosciamo B? B, per converso, lo conosciamo per mezzo di A. Ma questo è un circolo vizioso! Esattamente.

Questa è la conoscenza, conoscere è relazionare, porre relazioni, porre in relazione. E’ ora da chiedersi: il sapere che sa i limiti del conoscere appartiene alla relazione?  …

Dialettica dicibile indicibile

No, non lo può. Come infatti ha opportunamente osservato Emanuele Severino, lo sguardo che vede crescere il deserto non appartiene al deserto. Od anche, il sapere eccede, eccede il conoscere. Eccede nel senso che ha di proprio l’essere oltre, oltre ciò in cui e mediante cui si esprime il conoscere. Detto ancora diversamente, le mutevoli forme del conoscere possono darsi e si danno, per dirla con il Kant della Critica della ragion pura, in virtù di quell’incondizionato con cui è compiuta l’unità dell’intelletto perché soltanto l’incondizionato rende possibile la totalità delle condizioni: Lo sguardo che “vede” le condizioni, non è condizionato, non appartiene all’ordine d’esse.

Volendo parlare il linguaggio della scienza, possiamo rilevare che una accreditata interpretazione della meccanica quantistica ritiene che sia la coscienza a far collassare le possibilità (l’indeterminato) in particelle (il determinato). Ne segue che la coscienza è da intendersi come qualcosa di non locale, non propria dello spazio-tempo, quindi non presente in esso e, pertanto, trascendente ed anche che la materia è coscienza organizzata.

Torniamo ora a quanto si argomentava circa i termini che entrano in gioco nella conoscenza, essi sono, come si rilevava, A (l’oggetto intenzione del conoscere), B (l’altro da lui per il quale, in virtù del quale è conosciuto) ed R, la relazione tra i relati, pertanto ciascuno d’essi appartiene al “gioco” della conoscenza ma nessuno è conoscenza, è pertanto da chiedersi: dove risiede la conoscenza, la sua possibilità? Forse in un quarto elemento? E’ chiaro che se rispondessimo affermativamente apriremmo lo spazio al perpetuarsi della domanda (apriremmo lo spazio al cattivo infinito) senza pervenire al primum della conoscenza.

Infatti, per dirla diversamente, ciò in virtù di cui vedo non appartiene al vedere, ciò in virtù di cui “conosco” la conoscenza non appartiene alla conoscenza.

In realtà i tre elementi del conoscere, di cui si diceva, sono tali se la relazione A- B è reificata, intesa come oggettiva, la qual cosa contraddice però ciò che la relazione intende essere: ciò che ponendosi fra non si frappone, non si pone fra. Tale intenzione, come evidente, è però contraddittoria, come contraddittoria è la relazione intesa come il terzo fra i due. Questo terzo richiederebbe infatti, a sua volta, ciò che possa collegarlo ad A ed a B, con ciò aprendo lo spazio al cattivo infinito.

In realtà, la relazione, è da intendersi non come dato, come fatto , bensì come atto: l’atto del “conoscere”. Conoscere che, così inteso, eccede sempre le modalità e forme del suo darsi, per la stessa ragione per cui non può darsi un determinato, definito detentore del conoscere.

Si intende dire che il conoscere, così inteso, eccede sempre il soggetto conoscente e che questo, come le forme in cui variamente il conoscere s’è espresso e si esprime, è  ineliminabile, non innegabile.

Tuttavia, se conoscere v’è, se v’è sapere, dovrà pur darsi un soggetto di tal conoscere, di tal sapere, colui che sa e conosce. Come dire, se v’è un effetto v’è una casa, se v’è un figlio v’è un padre.

Ora, al riguardo della relazione, intesa come relazione di paternità riferita a Dio: Dio padre-Dio figlio, Agostino osserva che queste connotazioni relazionali nulla ci dicono della natura divina in quanto assoluta, sciolta da ogni vincolo. Dio infatti eccede la relazione, l’universo relazionale: relazionare è condizionare ed il condizionato è relativo. Non a caso la relazione padre-figlio, in riferimento alla natura di Dio, vede il proprio compimento in un terzo: terzo che toglie l’alterità dei relati: lo Spirito, Spirito che, proprio per questo, è detto Santo.

Lo Spirito è cioè quel personificarsi della relazione che, configurandosi della stessa natura di Dio, quale Dio, toglie l’alterità del terzo, della relazione. Lo spirito è infatti amore e amore, ci insegna il Cristo, è Dio.

Ora l’amore, nella sua accezione autentica, ha di proprio questo: il togliersi per l’altro, nell’altro. Ed infatti non v’è amore più grande, autentico dice Gesù, di quello che dona se stesso per l’altro.

Ne segue che, se il proprio di Dio, del Dio cui può pervenire la parola, il logos dell’uomo, è amore e amore è togliersi, il Dio cui la parola può accedere, che il logos può manifestare, è quello che ci dice: ogni determinato, ogni soggettività deve lasciarsi trapassare dall’amore, ovvero da quella luce del divino per la quale ciascuno e tutti sono unità nella pluralità, pluralità nell’unità; ovvero quella caleidoscopica armonia propria del prisma che si lascia trapassare dal raggio di luce. Trapasso per il quale l’unità del raggio si declina nella pluralità dei colori così come la pluralità si invera nell’unità che la rende manifesta.

“Quel giorno (il giorno in cui riceverete lo spirito di verità) conoscerete che io sono nel padre mio e voi in me ed io in voi”  (Gv. 14,20).

Quel giorno conoscerete cioè quanto non appare immediatamente manifesto: il compenetrarsi dei molti nell’uno, dell’uno nei molti, e lo conoscerete in forza dello Spirito di verità. Di verità, perché di lui è proprio l’intelligere, l’intum-legere.

Si diceva che Dio è amore, il togliersi dell’alterità nell’unità. E’ cioè il superamento della datità del determinato, ché omnis determinatio est negatio.  Ma, l’ente, l’esistente, ha questo di proprio: l’esser determinato.

Se allora l’esistenza è limite, determinazione, non corretto risulta argomentare, sia in positivo che in negativo, dell’esistenza di Dio. Eppure a Dio l’uomo si è rivolto e a questi si è manifestato. Tuttavia l’uomo, non contento, al dio manifestantesi ha osato chiedere il nome, ché il nome è rivelativo dell’essenza, dell’essenza del nominato.

“Ecco, io andrò ai figli di Israele e dirò loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma essi mi diranno: Qual è il suo nome? che risponderò loro? Dio disse a Mosè: “Io sono colui che sono” (Es., 13,14).

Allora, se Dio ha un nome egli è un ente, è alcunché di determinato: è dio. Ma cosa ci dice di dio tale nome? A ben osservare ci dice dell’impossibilità di nominazione, della non nominabilità di Dio. Ci dice cioè esattamente questo: di un dio, di una manifestazione del divino può darsi nome, la possibilità di nominazione, quindi una natura determinata, non così di Dio, che di questi è propria la non riferibilità all’esistenza.

“Io sono colui che sono”. Cosa infatti sta a significare questa tautologica espressione? Che nulla di determinato può dirsi in relazione a Dio, in quanto fuori,  al di là d’ogni relazione.

Questa indicibilità concernente l’indicibile, che è irrapportabilità d’esso all’ordine dell’esistenza, è tuttavia determinante per l’esistenza medesima.

Determinante perché due cose questo nome, non nome, ci dice: ci dice che il molteplice non esaurisce l’Uno, l’esistente non manifesta compiutamente l’essente. E ci dice anche che il molteplice, l’esistente, l’ente non può darsi, né si dà, se non riferendosi, rapportandosi a ciò che, comunque, è fuori d’ogni rapporto, d’ogni possibile oggettivazione: questo il senso ed il valore metaforico (da mèta-phérein: phérein: trasportare e mèta: termine finale) del simbolo, del rito: quello appunto di condurre oltre sé, oltre il suo esser determinato, verso l’incondizionato quale possibilità della totalità delle condizioni; in quanto non si dà molteplice che nell’Unità e per l’Unità e quindi, ed anche, che la ratio dell’esistente è nel vincolo dei molti all’Uno, dell’Uno ai molti. Vincolo che si esprime in ciò che autenticamente indicano le parole amore, carità, compassione (nel senso in cui questa è declinata nella cultura buddista),  o in quel nome: Emmanuele che, significandoci come il proprio di Dio è “l’esser con noi”, ci ricorda, nel medesimo, l’ulteriorità, indicibilità di Dio, inteso come ciò che è irrapportabile alla esistenza e, nel contempo, come quell’incondizionato per cui è data la totalità delle condizioni, il condizionato medesimo.

Immaginiamo ora che il foglio, su cui sono impressi questi segni che compongono parole, sia un mondo, un universo bidimensionale, e chiediamoci: l’abitatore di questo universo in che rapporto può essere, ed è, con l’universo tridimensionale che consente, a noi, di ergerci oltre la bidimensionalità, così da poter tracciare segni su fogli? In che rapporto può essere ed è? Nessuno. In nessun rapporto poiché, per lui, la tridimensionalità non esiste. Così come, per noi, abitatori della tridimensionalità e del tempo (quarta dimensione), esperibile non è una dimensione ulteriore. Eppure di questa ulteriorità diciamo, questa ulteriorità concepiamo, e così dicendo, concependo, siamo in essa oltre essa: concependone una quarta (già dataci dalla dimensione temporale), quinta, sesta…. Decima.

E’ inoltre da rilevare come quella dimensione, quel mondo in cui sono espressi i segni che compongono parole, non rinvii solo alla dimensionalità spazio-temporale, sibbene anche, e più, a quella dimensione ineffabile in cui i segni divengono parole, in cui la spazialità si converte in significato.

Ecco, quanto qui si è argomentato intende significare proprio questo: i segni che trovano composizione nell’universo bidimensionale del foglio sono il molteplice che l’esistente manifesta; gli insiemi (parole) che sul foglio si compongono, e che tali sono solo per quanti eccedono la bidimensionalità, abitando la tridimensionalità, sono il molteplice organizzato in unità, unità colta proprio per la capacità di essere oltre il puro amorfo molteplice; il significato delle parole, così compostesi in unità, è quella dimensione per la quale ogni molteplice, ogni orizzonte dimensionale, diviene un universo, ogni universo un kosmos, ovvero qualcosa dotato di senso, qualcosa che eccede la cosalità, un ente non più mèro ente ma ciò in cui e per cui l’essente può manifestarsi.

Di qui la presenza-assenza, nel nominabile, dell’innominabile, la presenza-assenza nell’essere ontico di ciò di cui né l’essere né il non essere si può predicare. Un po’ come, per esemplificare, può dirsi presente nell’aere il sole che lo pervade del suo splendore.

“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio (…). Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui e senza di lui nessuna delle cose create è stata fatta” (Gv., 1,1-13).

“In principio Dio creò il cielo e la terra (…) E Dio disse: “Sia la luce”. E la luce fu. E Dio vide che la luce era buona e separò la luce dalle tenebre (…). E Dio disse: “Sia il firmamento nel mezzo delle acque e separi le acque dalle acque”. (Gn., 1,1-16).

“In principio” il verbo creare si coniuga con il verbo separare  e la separazione permane se e in quanto buona, ovvero tale che, nel separato, Dio possa, in qualche modo, riconoscersi, e il separato, l’ente, l’esistente, riconoscersi in lui, disponendosi in dia-logico rapporto con ciò da cui proviene; così come la parola stessa dia-logo indica nel doppio riferimento che la compone: il dia che fa riferimento alla pluralità (ai separati) ed il logo che rinvia alla ratio della separazione, alla sua ragione e limite. Ragione e limite (legame) che il diavolo (in latino diabolus da dia-ballo: il separatore in senso distruttivo) intende recidere, sopprimere. Limite per altro essenziale perché, se la ragion d’essere del molteplice, della creazione, è la manifestazione della ricchezza custodita nell’unità, la “perdita” dell’unità, la separazione fine a se stessa, fa venir meno quella ricchezza medesima. Si pensi ad esempio ad un ventaglio chiuso nella mano: la ricchezza delle raffigurazioni che contiene è come se non fosse, se quella mano non lo aprisse ma, se aperto e poi separato nelle pieghe che, separando, connettono, il ventaglio stesso viene meno, viene meno nell’atto del venir meno della sua unità.

In principio – ed il principio è qualcosa di predicabile, rapportabile (v’è un prima in virtù di un poi e viceversa) – era il Verbo, il Logos, la Parola, il discorso, ciò che pone le cose e si pone (esiste) in virtù d’esse; ed il Logos era Dio, ciò che costituisce principio ed orizzonte del creato, possibilità e limite della predicabilità, colui che presidia l’orizzonte all’interno del quale può argomentarsi dell’essere e del non essere e che dischiude quell’“oltre” ogni significazione per il quale ogni significato, ogni determinato, può darsi, e si dà, ma nel quale, nel medesimo, viene meno.

Saper questo ha senso? E che senso ha? Lo sguardo che vede crescere il deserto non interagisce con il deserto, questo il “prezzo” del poterlo vedere nel suo accrescersi; questo il suo valore: vedere e verità consonando. E tuttavia è in quello “sguardo” e per quello sguardo che il deserto si dà, esiste, così come è in quel deserto e per quel deserto che lo “sguardo” si manifesta e può, come tale, manifestarsi.

Ora, se sostituiamo la parola deserto con materia e, parimenti, sguardo con Spirito, risulterà evidente la presenza-assenza dello Spirito nella materia. Presenza, perché la materia può dirsi forma del “darsi” dello Spirito, assenza, perché questo “darsi” è dello Spirito ma non è lo Spirito.

Saper questo non è irrilevante, non lo è esattamente nella misura in cui non è irrilevante sapere. E’ infatti questa “irrilevanza”, giudicata tale o meno, che decreta senso e destino d’una civiltà, governando, più o meno esplicitamente, natura, senso e qualità del rapporto creato-creature, nonché del rapporto tra le creature medesime.

Un ulteriore domanda a questo punto si pone: vedere “crescere il deserto” può comportare render possibile arrestare il deserto che cresce? Alla domanda possiamo solo rispondere che, sia o meno possibile al livello fattuale, empirico, “arrestare il deserto che cresce”, tale possibilità non toglie che quel sapere, in quanto sapere, abbia già reso fecondo il deserto, eretto riparo al suo accrescersi.

Riannodando linguaggi diversi ma assonanti, possiamo anche rispondere: alla coscienza non locale, alla coscienza eccedente lo spazio-tempo, è dato far collassare la possibilità in particelle, è dato convertire il possibile (l’indeterminato, il fuori relazione) in reale, in ciò che è tale in quanto in relazione, determinato. 


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