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Misericordia Io Sono “Provvidenza o Destino” Intervento di Carlo Piccioli

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Grazia

Ed in forza di cosa in assimilazione a Lui vivono? In forza dell’amore: Dio è amore (1 Gv. 4,16).

Dunque, ciò che rimane nella osservazione conclusiva di San’Agostino è la misera e l’Amore.

Ora l’amore non è la legge, non è ciò che si pone opponendosi, separando, donde l’impossibilità che vi sia un giusto sotto la legge (Rm., 3,10; 7,8): tutti lasciarono cadere la pietra dalle loro mani: nessun innocente era fra loro.

E’ infatti per la grazia che siamo giustificati, quindi gratuitamente (Rm., 24; 6,14).

Ora la grazia è espressione della cifra propria dell’amore: la gratuità, è infatti l’amore assimilabile alla sovrabbondanza d’una fonte zampillante, allo sfavillio d’una vivida fiamma, qualcosa che, pur effondendosi, permane in sé integro.

Sovrabbondanza, gratuità, sono pertanto il più dell’amore, ciò per cui l’amore è amore, ciò per cui la “valle” della colpa (mancanza) può esser colmata, la “vetta” della superbia (eccedenza) appianata (Lc. 3,5).

Il poter essere giusti solo nel ed in riferimento all’amore è posto in salvo dalla provvidenza che si dà come grazia, e nel Figlio si compie.

E’ posto in salvo proprio perché il creato, nell’uomo, può non abitare l’amore, non permane in sé effondendosi, non effondendosi permanendo in sé. L’uomo ha facoltà di disabitare l’amore, la facoltà di non procedere nel senso della circolarità propria alla conversione, ciò per cui soggiorna nell’amore.L’uomo ha facoltà di procedere nel senso della effusività dispersiva. Questo, almeno, nell’ordine della storia. In quello della meta-storia, dell’«altra faccia  della vita rispetto a quella rivolta verso di noi» (Rilk), ovvero del «mio modo increato» (Eckhart), la conciliazione nell’uno è da sempre e per sempre.

Sotto la legge non v’è conciliazione a meno che non sopraggiunga la grazia.

Destino

Il sovraggiungere o meno della grazia nel «mio modo creato» (Eckhart) dicesi destino. Ora, il creato è figlio del tempo ed il tempo ha in sé la finitudine, il proprio finire.

Tale finire toglie l’alternativa che nel “o meno” è racchiusa, non si danno infatti alternative nella contemporaneità dell’eternità.

Intendere l’amore nel senso che l’immagine di viva fonte zampillante può significare è intenderlo come effusività, sovrabbondanza. Sovrabbondanza ed effusività che non sono sinonimi di dispersione. L’amore, quale natura propria di Dio, va infatti compreso alla luce della rivelazione del nome divino in quanto espressivo di essenza. Ed il Nome, nella sua formulazione: Sum qui Sum, ci dichiara, emblematicamente, la sua essenza non lineare, sibbene circolare: il terzo, dei tre termini, di cui si compone, coincide con il primo:

 

Sum ® qui

¯

Sum    ¬

 

Ora, tale circolarità non può che significare un rafforzamento del primo Sum nel secondo, così manifestando l’esser, propriamente, vivificazione:

«Dio, invero non è di morti ma di viventi:

tutti infatti in assimilazione a Lui vivono»;

(Lc. 20,38)

 

Ed anche mostrando, tale circolarità, come la vivificazione si dia, si attualizzi in e come conversione: ritorno a sé, in sé.

Amore ed effusività

Ne segue: se dall’amore quale effusività, sovrabbondanza, consegue la creazione, dalla vivificazione, quale ritorno in sé, consegue la conversione dell’uomo e, mediante l’uomo della creazione, ovvero consegue il poter essere adeguati a se stessi, alla propria ragion d’essere, solo nel ed in riferimento all’Amore che li ha generati: affinchè tutti siano uno e l’Uno sia in tutti.

Tale dirsi dell’Uno nei molti, dei molti nell’Uno, in forza dell’Amore, ci dice come l’Amore sia Sapienza, tanto che questa lo dice Figlio:

«Io sono la madre dell’amore»

(Ecli 24,24)

 

Ciò è comprensibile per la ragione che:

«Nella sapienza è lo spirito

d’intelligenza, Santo, unico,

molteplice».

(Sap. 7,22)

Provvidenza

L’Amore, la Sapienza hanno questo di proprio: render l’Uno nei molti, i molti nell’Uno, che è conciliazione dell’immanente, del vivente. Conciliazione per la quale è chiamato in causa lo spirito di intelligenza, ove per esso si intenda la capacità di intum-legere, di leggere dentro, nel senso anche di oltre, oltre l’immediatezza, oltre la mera razionalità[1].

Dall’amore, inteso come intelligenza, discende la provvidenza: il governo divino di creato e creature esistente in Dio stesso, nel “mio modo in creato”. Governo il cui fine è far si che tutti siano consumati nell’unità (Gv. 17,23).

Poiché ciò che esiste in Dio stesso esiste da sempre e per sempre la misera è, da sempre e per sempre in salvo nella e per la misericordia: riconciliazione che abita la provvidenza.

Ora, da quel ‘sempre’ sorge il problema dell’umana libertà. Tuttavia, a ben vedere, ciò non toglie che nell’eternità di Dio, nel suo divino governo, sia iscritta la libertà dell’uomo, libertà chiamata a rispondere all’amore che, ponendola in essere, la interpella.

Quale la risposta adeguata all’amore che interpella?

«Non siate troppo solleciti per la vita vostra, di quel che mangerete, ne per il vostro corpo, di che vi vestirete. La vita non vale più del cibo, e il corpo più del vestito? (…) il Padre vostro celeste sa che avete bisogno di tutto questo. Cercate prima di tutto il regno (di Dio) e la sua giustizia, e tutte queste cose, vi saranno date per giunta» (Mt. 6,25-33).

Ed ancora, a ribadire il concetto:

«Marta, Marta, t’affanni e t’inquieti di molte cose, eppure una sola è necessaria. Maria s’è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta» (Lc. 10,41). «Beati quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc. 11,28).

Il mio modo (in) creato

Con parole già parlate possiamo concludere: «il mio modo creato» trova conciliazione nel «mio modo in creato»: l’ordinare l’esistente a questo è la possibilità del darsi della conciliazione, della conciliazione esperita. L’inversione dei valori che in tale ordinare si dà è,  infatti, irruzione dell’eterno nel tempo.

Ora, ciò che sul versante di Dio dicesi provvidenza sul versante dell’uomo è detto destino.

I due (provvidenza-destino), che sono due sul versante umano poiché sotto la legge non v’è conciliazione, vivono nell’opposizione, ovvero opponendosi, la provvidenza non sembra conciliarsi con il destino: l’uno l’altro escludendo. E si escludono perché il destino vede ciò che appare, ed appare nell’orizzonte della razionalità, la provvidenza, alla luce dell’intelligenza (da intum-legere), oltrepassa tale orizzonte cogliendo la concordia nella discordia.

Sul versante di Dio, quello dell’intelligenza d’amore, dell’amore intelligente, i due non sono mai stati due poiché tutti in assimilazione a Lui vivono. L’assimilazione a Lui è la vivificazione, la conciliazione che ha nome Cristo Gesù. Quella conciliazione per la quale ciò che si mostra morte si converte in vita:

«Che i morti siano resuscitati

Mosè pure lo indicò (significò) sul roveto,

(…)

Dio, invero non è dei morti ma dei viventi:

tutti infatti in assimilazione a Lui vivono»

(Lc. 20, 37, 38)

 

Ordine destino e provvidenza

Il destino non vede ciò che si da nell’ordine del tempo e di questo ci dice, la provvidenza è visione nell’eterno e dell’eterno e d’esso ci dice. E l’eterno parla la lingua dell’amore, della misericordia.

E tuttavia, la provvidenza stessa, in quanto governo, non è la conciliazione: il governare concerne la molteplicità, quindi la relazionalità. In Dio non può però albergare il molteplice, ciò che è figlio del relativo, della determinatezza propria di ciò che vive nello e dello spazio-tempo.

Quanto allora possiamo dire è che la provvidenza, operando come misericordia (conciliazione del particolare nell’universale), mostra come quell’essere che, nell’universo spazio-temporale risulta errante perché ha l’errore come destino – nel senso che la sua limitatezza lo implica – nella dimensione divina, dell’eterno, è mondato dall’errore, quindi libero dalla prigione del destino, che è visione e vita limitata e particolare delle cose del mondo. Provvidenza e destino, pertanto, sono due aspetti, due ottiche gettate su di un molteplice: il mondo. Due ottiche, l’una concernente il molteplice nella dimensione spazio-temporale, l’altra concernente lo stesso molteplice  pensato, però,  all’interno di Dio.

Ora, come osservato da Sant’Agostino a proposito della trinità, pensare la relazione, ovvero il molteplice, all’interno di Dio è contraddittorio. Perché il molteplice, gli enti, consegua la conciliazione del proprio destino deve esser, per dirla con Platone, confutato, confutazione essendo, secondo l’affermazione di Teeteto, la più potente delle purificazioni[2].

Infatti: «se l’errore – il falso – veramente fosse, non solo sarebbe impossibile liberarsi d’esso, salvarsi dal male che vi si incentra, ma sarebbe impossibile riconoscerlo errore»[3].

Centrale, determinante, è pertanto l’azione purificatrice della confutazione in quanto è in essa e per essa che «appaiono insieme l’errore e la fine dell’errore, la caverna e la luce rispetto alla quale essa è oscurità, l’ombra e la cosa di cui è ombra»[4].

Venendo al contesto del nostro discorso, purificazione è il Nome, l’IO SONO, ciò che nell’esistenza si dà come memoriale, memoriale di generazione in generazione: presenza di ciò che è in essenza, affinché tutti siano nell’Uno e l’Uno sia in tutti.

Carlo Piccioli
Misericordia Io Sono intervento di Carlo Piccioli al ‘Il Suono dell’Io Sono’ Festa della Mia Parola sul Kairos del 12 Novembre 2016 al Cenacolo San Marco di Terni.

[1] Cfr. M. Gentile, Breve Trattato di Filosofia, Padova, 1974, p. 105 e segg..

[2] Cfr., Sofista, 229d-230e. Ciò consegue all’aver inteso <<la verità come «svelamento» o «rivelazione» dell’essere cioè come principio che non sopporta paragone con l’esserci e con l’essente>>, la qualcosa è propria di una «conoscenza diversa da quella discorsivamente razionale» (M. Gentile, op. cit., p. 120).

[3] G.R. Bacchin, Haploustaton, principio e struttura del discorso metafisico, Firenze, 1995, p. 119.

[4] Ivi, p. 120. «Questo indivisibile momento – indivisibilità del punto – non può estendersi temporalmente (…) proprio perché è indivisibile o non è affatto: ma non lo si può rappresentare vivere altrimenti dall’estenderlo in una lineare progressione come quella che è tempo essendo passaggio» (Ibidem).

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